["Decidere sui mercati","Consigli per la lettura","News: riflessioni","Un po' di statistica","Strumenti finanziari","Mercati e portafogli","Psicologia e finanza"]
PASSA PAROLA e contribuisci alla crescita della consapevolezza finanziaria. Condividi questo articolo
di Flavio Rinaldi
Quante volte mi capita di sentire: “se 15 anni fa avessi investito tutto in Google oggi sarei multimilionario!”. E questo vale anche per Amazon, Facebook etc., insomma, i FAANG.
In questo post vorrei provare a spiegare che non è il caso di avere simili rimpianti, e per un sacco di motivi.
Vediamo.
Il primo, fondamentale motivo, è che 15 anni fa non era proprio semplice sapere che i FAANG sarebbero stati i FAANG, non era proprio semplice!
I BIAS
Quando si fanno ragionamenti di questo tipo è sempre bene tenere presente che la mente umana è soggetta a molti bias cognitivi, forme di distorsione delle valutazioni causate, in sostanza, da pregiudizi. Questi bias affondano le loro radici nella storia dell’evoluzione e in molti casi sono stati assai utili per la sopravvivenza della specie. In alcuni casi, tuttavia, sono controproducenti e, in particolare, lo sono in tutti quegli ambiti in cui è necessario essere riflessivi anziché intuitivi. Uno di questi, noto in finanza, è lo hindsight bias, anche detto “bias del senno di poi”: abbiamo istintivamente la tendenza a credere, erroneamente, di aver saputo prevedere un evento correttamente, una volta che l’evento è ormai noto.
Il risultato è che oggi, guardandoci indietro, può sembrare che fosse scontato che i FAANG si sarebbero rivelati i FAANG ma, purtroppo, non è così. Allo stesso modo non è affatto semplice, oggi, ipotizzare quali saranno le aziende che nei prossimi anni avranno il tasso di crescita, anche di capitalizzazione di borsa, dei FAANG. Ricordiamoci sempre che il tasso di “fallimento” tra le start up innovative è altissimo. Certamente qualcuna farà il botto ma molte altre, invece, andranno male o molto male. Tra l’altro, non era affatto semplice nemmeno prevedere che l’Antitrust americana sarebbe stata accondiscendente nei confronti di questa crescita, senza fare degli spezzatini come ha fatto, l’ultima volta, con AT&T.
C’è anche un altro aspetto interessante ed importante su cui occorre interrogarsi: se avessi acquistato Google o Apple o Amazon quindici anni fa, sarei stato in grado di tenere le azioni fino ad ora? Quante volte avrei pensato, dopo un grande rialzo o dopo una pesante correzione (ci sono state, eccome se ci sono state), di realizzare il guadagno liquidando la posizione? E quante volte avrei ceduto alla tentazione? E, magari, non è che dopo aver venduto ed averle viste salire ancora mi saprei precipitato a riacquistarle per poi trovarmi di mezzo un’altra correzione che mi avrebbe fatto pensare che era finita la festa, così avrei venduto realizzando una perdita?
In realtà, ad indurci a pensarla in questo modo sono altri bias, come quello di conferma. Se fosse così semplice, saremmo tutti milionari. Tutti avremmo investito in uno o due dei FAANG, avremmo avuto il sangue freddo di tener duro, sia dopo i rialzi che dopo le correzioni, e, attenzione, adesso ci troveremmo comunque davanti al solito dilemma: le quotazioni sono gonfiate? O invece la crescita sarà tale che queste aziende continueranno a marciare a passo spedito? L’Antitrust farà lo spezzatino o imporrà comunque delle regole o no?
LA COSA PIÙ IMPORTANTE NEGLI INVESTIMENTI
Quando si parla di investimenti, è fondamentale concentrarsi innanzitutto sul ridurre al minimo il rischio rovina. Tolto di mezzo quello, si è già a buon punto. È lo stesso concetto espresso da Warren Buffett con la sua celebre frase: “Prima regola: non perdere. Seconda regola: ricordarsi della prima.” Il primo passo verso questo obiettivo è, intuitivamente ma anche matematicamente, diversificare, non puntare tutto, ma nemmeno molto, sullo stesso cavallo. Allora, semplicemente, se quindici anni fa avessi voluto puntare sul mondo delle aziende tecnologiche ad alto potenziale di crescita (cd. titoli growth), avresti dovuto acquistare azioni di molte società quotate al Nasdaq. Alcune di queste sarebbero cresciute moltissimo. Altre sarebbero cresciute poco, altre ancora per nulla e, infine, altre avrebbero perso valore o, addirittura, sarebbero fallite. Per tenere bilanciato il rischio, ad un certo punto ti saresti domandato se fosse il caso di alleggerire un po’ le azioni che avevano guadagnato molto, per ridurre la volatilità del portafoglio. Ed ecco che, correttamente, avresti riallocato il tuo capitale tra le diverse azioni che avevi in portafoglio e, presumibilmente, ne avresti aggiunte altre che, nel frattempo, erano state inserite nell’indice Nasdaq.
Questo è il principio di fondo dell’investimento “sano”, quello che consente di esporsi ad un mercato senza però assumersi il rischio specifico di una singola azienda, che ha una probabilità di rovina enormemente superiore.
Sì ma, in questo modo cosa avresti ottenuto? Sostanzialmente avresti ottenuto lo stesso rendimento dell’indice Nasdaq, meno i costi sostenuti per le operazioni e le imposte pagate per le vendite plusvalenti (nella misura non compensabile con le perdite).
L’INTUIZIONE DI J. C. BOGLE
Ecco che allora, personalmente, a Google preferisco Bogle, e precisamente John C. Bogle, il fondatore di Vanguard Group. A metà degli anni settanta del secolo scorso, questo genio della finanza (sì, secondo me si tratta di un genio) con dei valori sociali straordinari, si rese conto che la stragrande maggioranza dei fondi comuni che investivano sulle aziende componenti l’indice S&P500 non erano in grado di battere questo indice. Notò anche che, tra i pochi fondi in grado di battere l’indice, vi era un notevole turnover che, di fatto, rendeva impossibile prevedere quali fondi avrebbero sovraperformato l’indice negli anni successivi.
Sulla base di questa osservazione, elaborò una “teoria” disarmante per semplicità e tuttavia inconfutabile.
Spiegò che gli indici (azionari o obbligazionari che siano) sono, per definizione, delle medie. Sono la media pesata dell’andamento dei titoli che li compongono. Sono però anche la media dei rendimenti che estraggono gli investitori che investono su questi titoli, inevitabilmente. Nulla si crea e nulla si distrugge. La sovraperformance realizzata da qualche investitore corrisponde alla sottoperformance di altri. Quindi, mentre investire non è un gioco a somma zero (infatti se l’economia cresce, i mercati crescono e tutti quelli che vi investono vedono aumentare il proprio capitale), cercare di battere un indice è, invece, un gioco a somma zero. Se però, per cercare di battere l’indice, sostengo dei costi, poniamo, del 2% all’anno, il gioco diventa a zero meno il 2%!
Da questa idea, ripeto, disarmante per semplicità ma inconfutabile, sono nati i primi fondi passivi e, successivamente gli ETF, di cui abbiamo parlato qui: Perché mai dovrei investire in ETF?
Una delle frasi simbolo di Bogle: “non cercare l’ago nel pagliaio, compra tutto il pagliaio!”
In un prossimo post vedremo cosa può significare, in soldoni, investire in modo efficiente nel lungo periodo.
Se trovi interessante questo post, condividilo sui tuoi social e con i tuoi amici e continua a seguirmi!
PASSA PAROLA e contribuisci alla crescita della consapevolezza finanziaria. Condividi questo articolo
Iscriviti alla nostraNEWSLETTER
Ricevi gratuitamente notizie sui mercati finanziari e sul mondo Gamma Più.
Sono associato
Mi avvalgo dei servizi:
Consulenza a distanza
Offriamo un servizio di consulenza personalizzata a distanza con sistemi di video-conferenza sicuri e criptati.