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["Decidere sui mercati","Consigli per la lettura","News: riflessioni","Un po' di statistica","Strumenti finanziari","Mercati e portafogli","Psicologia e finanza"]
«Proprio come l’uomo primitivo che un giorno si grattò il naso, vide piovere, e sviluppò un modo elaborato di grattarsi il naso per ottenere la pioggia che desiderava, noi oggi colleghiamo la prosperità economica a qualche riduzione dei tassi d’interesse da parte della Federal Reserve, o il successo di una società alla nomina di un nuovo presidente.»
N.N. Taleb
Avevo scritto: “Negli ultimi giorni si è tornati a discutere apertamente del possibile coinvolgimento diretto degli Stati Uniti in un'azione militare contro l’Iran. È difficile stabilire con certezza quanto la prospettiva di un’escalation sia concreta o quanto sia più un riflesso delle tensioni accumulate. Quel che è emerso con chiarezza è che Israele, da solo, non ha la capacità tecnica per colpire in profondità i principali impianti nucleari iraniani, progettati proprio per resistere ad attacchi convenzionali. Solo gli Stati Uniti possiedono le armi e i velivoli necessari per una simile operazione.
Tuttavia, la decisione americana di prendersi due settimane per valutare un eventuale intervento diretto sembra riflettere non solo prudenza militare, ma anche un cambio di umore all’interno della base elettorale repubblicana, poco incline a guerre prolungate in Medio Oriente. Il punto, forse, non è tanto se l’intervento ci sarà, ma cosa accadrebbe se non ci fosse. E, ancora di più, se un eventuale blocco dello Stretto di Hormuz — cruciale per l’export energetico, anche verso la Cina — sia realmente un’arma che Teheran è disposta (e in grado) di usare. Certo creerebbe problemi al commercio globale ma avrebbe ripercussioni economiche molto pesanti anche sull’Iran stesso.
La questione resta aperta, e come spesso accade in geopolitica, l’incertezza è una variabile più pervasiva e meno governabile di quanto si possa desiderare.”
Nel frattempo gli USA hanno avviato i bombardamenti sull’Iran…
La Federal Reserve ha confermato, per la quarta volta consecutiva, il mantenimento dei tassi di interesse nel range 4,25%-4,50%. Una scelta che, secondo Powell, è coerente con l’idea di un approccio moderatamente restrittivo. È interessante notare come la narrazione si sposti ora dal livello dei tassi all'equilibrio più ampio tra crescita, inflazione e stabilità finanziaria.
Il presidente Trump, come prevedibile, ha criticato con forza questa linea di condotta, spingendo per un abbassamento deciso dei tassi, in un range compreso tra l’1% e il 2%. Ma al di là del conflitto politico, la questione sembra sollevare interrogativi più ampi: quale livello di tassi è sostenibile, non solo per l’economia, ma anche per la finanza pubblica statunitense?
Secondo il Congressional Budget Office, nel 2025 la spesa per interessi sul debito pubblico ammonterà a circa 952 miliardi di dollari — ovvero il 3,2% del PIL — e assorbirà il 18,4% delle entrate federali. Dati del genere non si prestano a interpretazioni univoche, ma pongono interrogativi sostanziali sulla sostenibilità a lungo termine del debito. Non è detto che un abbassamento dei tassi risolva magicamente tutto, ma è chiaro che anche lo status quo non è esente da rischi sistemici.
Sempre in ambito americano, la strategia di collocamento dei titoli di Stato si è orientata verso scadenze brevi. La logica dietro questa scelta è piuttosto comprensibile: si cerca di evitare di “bloccare” l’elevato costo del debito su orizzonti lunghi, nella speranza che i tassi possano scendere in futuro. Tuttavia, questa flessibilità operativa ha un costo: espone il sistema a un rischio di rifinanziamento potenzialmente più elevato, qualora le attese su un ribasso dei tassi dovessero rivelarsi errate.
È una strategia che, in passato, aveva suscitato critiche da parte di chi oggi la sta attuando. Ma in un contesto dove il debito si riprezza rapidamente e i margini di manovra politica sono ridotti, le scelte apparentemente incoerenti possono anche essere lette come un adattamento pragmatico.
Nel frattempo, in Europa, la BCE si trova in una fase più avanzata del ciclo: l’inflazione core è tornata su livelli compatibili con l’obiettivo del 2%, e il ciclo dei tagli sembra essere per il momento in pausa. Anche qui, però, le variabili geopolitiche e le pressioni energetiche restano sotto osservazione.
Il contesto di tensione ha avuto effetti anche sui mercati delle materie prime. Il paniere complessivo ha guadagnato l’1,4% nella settimana, con il comparto energia — in particolare il petrolio WTI — in rialzo del 2,7%. L’oro, che fino alla scorsa settimana aveva beneficiato di flussi riflessivi legati al rischio geopolitico, ha invece corretto dell’1,9%.
La narrativa attorno a questi movimenti è spesso binaria: “petrolio su = guerra in arrivo”, “oro giù = tensione che rientra”. In realtà, le interpretazioni sono più sfumate. Il petrolio, ad esempio, riflette anche dinamiche di offerta e domanda globali. L’oro, da parte sua, potrebbe semplicemente star consolidando dopo un rally importante.
Forse, il dato più interessante è proprio questa ambivalenza: gli investitori si muovono tra l’urgenza di reagire agli eventi e la necessità di non sovrainterpretarli. Questo vale anche per chi si occupa di finanza personale.
MSCI World: -0,5% (settimana), +5,8% (anno)
S&P 500: -0,1% (settimana), +2,1% (anno)
Nasdaq 100: 0,0% (settimana), +3,3% (anno)
Eurostoxx 50: -1,0% (settimana), +9,6% (anno)
FTSE Mib: -0,5% (settimana), +18,7% (anno)
Nikkei: +1,5% (settimana), -2,8% (anno)
Hang Seng China: -1,4% (settimana), +19,4% (anno)
MSCI Emerging: +0,1% (settimana), +12,3% (anno)
La settimana appena conclusa è stata caratterizzata da un andamento incerto, ma non privo di spunti. Lo S&P 500 ha lasciato sul terreno lo 0,1%, mantenendosi comunque vicino all’area psicologica dei 6.000 punti. Eurostoxx e FTSE Mib hanno chiuso rispettivamente a -1% e -0,5%, mentre il Nikkei giapponese ha mostrato maggiore forza, con un +1,5%.
Il dato che forse merita maggiore attenzione è l’aumento del VIX sopra quota 20. Non un valore allarmante di per sé, ma indicativo di un mercato che non si sente “in controllo” del contesto. I settori tecnologico ed energetico hanno offerto un certo supporto agli indici, mentre i comparti difensivi come sanità e beni di consumo sono apparsi più deboli.
Global Aggregate: +0,15% (settimana), +1,38% (anno)
Rendimento Treasury 10Y: 4,38% (-0,02% settimanale)
Rendimento Bund 10Y: 2,52% (-0,02% settimanale)
Rendimento BTP 10Y: 3,50% (+0,01% settimanale)
Spread BTP-Bund: 0,98% (+0,03% settimanale)
I mercati obbligazionari hanno vissuto una settimana piuttosto stabile, con lievi progressi nei principali indici. Il rendimento del Treasury decennale USA si è mantenuto intorno al 4,38%, mentre l’indice Global Aggregate ha guadagnato lo 0,15%.
Sul versante europeo, i rendimenti del Bund tedesco e del BTP italiano si attestano rispettivamente al 2,52% e al 3,50%, con uno spread stabile a quota 98 punti base. Gli spread creditizi si sono mostrati nel complesso contenuti, a conferma di un clima che, pur incerto, non sta sfociando in tensioni generalizzate sui mercati del credito.
Una lettura interessante potrebbe riguardare il comportamento degli investitori istituzionali: la preferenza per strumenti investment grade resta alta, mentre l’high yield sembra mostrare qualche segnale di cautela in più. In assenza di scossoni esogeni, il mercato continua a premiare l’equilibrio.
Petrolio WTI: 74,9, +2,7% (settimana), +3,0% (anno)
Oro: 3.368, -1,9% (settimana), +28,3% (anno)
EUR/USD: 1,152 , -0,2% (settimana), +11,3% (anno)
Il mercato delle materie prime ha confermato una certa vivacità, con un incremento settimanale dell’1,4% per il paniere generale. Il petrolio WTI è salito fino a circa 75 dollari al barile, probabilmente sulla scia delle attese legate al possibile coinvolgimento USA in Iran. L’oro ha invece leggermente ritracciato, mantenendosi comunque su livelli elevati in ottica storica.
Sul fronte valutario, l’euro ha perso leggermente terreno contro il dollaro, con un cambio a 1,152, mentre il Dollar Index è sceso a 98,7 punti. Il Bitcoin ha oscillato in una forchetta tra 104.000 e 110.000 dollari, senza rotture particolarmente significative.
In un contesto così instabile, è forse più utile osservare i movimenti delle asset class come sintomi piuttosto che come cause. Le materie prime riflettono, prima ancora che anticipare, la complessità degli scenari attuali.
Qui di seguito l’andamento dall’inizio del servizio (1 luglio 2019) dei portafogli modello al lordo dei costi di transazione (variabili in base all’intermediario utilizzato e generalmente compresi tra 2,5 e 20 euro per ciascuna operazione), di quelli sostenuti per la consulenza e degli eventuali impatti della fiscalità ed al netto, invece, dei costi dei singoli strumenti utilizzati.
I dati si riferiscono al passato ed i risultati passati non costituiscono un indicatore affidabile dei risultati futuri.
I portafogli modello costituiscono la base utilizzata nell’attività di consulenza in materia di investimenti.
I singoli portafogli dei clienti possono differire dai modelli anche in modo significativo in ragione di diverse cause, valutate per ciascun cliente nell’attività di consulenza, quali contingenze fiscali, pianificazione, gestione del rischio di ingresso o in logica life cycle. All’interno del portafoglio complessivo del cliente possono anche essere presenti più portafogli in considerazione della pianificazione per obiettivi effettuata all’inizio o in corso di consulenza continuativa.
In lieve arretramento i portafogli modello, che tuttavia restano in territorio positivo da inizio anno. Si muovono ormai da diverse settimane in un’area di consolidamento poco sopra i livelli toccati prima del cosiddetto “liberation day” del 2 aprile — giorno in cui Trump ha annunciato i dazi (poi riformulati, rinviati, sospesi…). Un’area che, più che un semplice riferimento tecnico, sembra comportarsi come un punto di attrazione.
Nel corso dell’anno, oro e azionario si sono alternati nel contenere i ribassi. Ma il fattore che più di ogni altro continua a penalizzare la performance dei portafogli è il dollaro.
La questione della copertura valutaria è annosa, e spesso fonte di tentazioni. Eppure, operarla in modo strategico è nella maggior parte dei casi una scelta discutibile. I motivi sono due: in primo luogo, significherebbe dover fare “timing” sul cambio, un approccio che sul lungo periodo si è rivelato, nella maggior parte dei casi, più dannoso che utile — non molto diverso, in fondo, dal cercare di entrare e uscire dal mercato azionario al momento giusto.
In secondo luogo, le coperture valutare non sono gratuite. Oltre ai costi di negoziazione, va considerato il differenziale tra i tassi a breve delle valute in questione: oggi questo spread supera il 2%. Se così non fosse, il mercato offrirebbe opportunità di arbitraggio senza rischio, cosa che in teoria non dovrebbe accadere — e che nella pratica accade molto raramente, e mai a lungo.
Manteniamo un approccio in cui c’è una parte coperta ed una a cambio aperto in cui variamo gradualmente l’esposizione a seconda delle circostanze ma senza un eccessivo sbilanciamento su un lato o sull’altro.
Nel frattempo, la fase in corso è dominata da una decorrelazione tra asset class piuttosto marcata, in certi momenti quasi casuale, che si traduce in una sorta di stagnazione dei portafogli attorno ai livelli menzionati.
Come osservato più volte, il drawdown in corso ha toccato circa due terzi del massimo storico prima del rimbalzo. Attualmente, oltre metà di quella discesa è stata recuperata: in altre parole, la seconda gamba della correzione è stata in buona parte riassorbita, rendendo quasi neutro, dal punto di vista grafico, l’effetto del “liberation day”.
Si potrebbe pensare che questa sia solo una pausa prima di un nuovo allungo, ma — mai come ora — i segnali grafici vanno presi con la dovuta cautela. L’attacco di Israele all’Iran era solo l’ennesimo esempio di come gli imprevisti possano alterare bruscamente gli scenari. Ora non è più nemmeno l'ultimo, è già stato superato dai bombardamenti USA sullo stesso Iran.
Non è affatto detto che la fase di volatilità sia finita. E, per quel che vale la mia opinione, non sembrano ancora maturi i tempi per aumentare l’esposizione azionaria. Restare in attesa non è sempre una scelta comoda, ma può essere necessaria.
Ci saranno, verosimilmente, momenti in cui sarà opportuno tornare a investire anche senza certezze — senza quella “luce in fondo al tunnel” che spesso attendiamo come condizione necessaria. E forse è proprio lì che si gioca la parte più difficile, ma anche più interessante, del nostro lavoro: imparare a decidere non quando tutto è chiaro, ma quando nulla lo è del tutto.
Perché riporto sempre queste avvertenze?
Dal mio punto di vista è una questione di abitudini sane. Prima di guardare il proprio portafoglio o valutare di effettuare o dismettere un investimento, è bene riportarsi alla mente i pochi concetti base che ci aiutano a recuperare consapevolezza, facendoci porre le giuste domande.
E quindi ricordo le principali emozioni a cui dobbiamo stare attenti operando sui mercati (so che sarete stanchi di leggerle o che, più probabilmente non le leggerete più ma, in realtà, sono quel tipo di considerazioni a cui bisogna ricorrere ogni tanto, quando ci si domanda cosa si stia facendo… e, quindi, repetita iuvant):
Manteniamo sempre il focus determinante sulla pianificazione individuale di ciascuno, che è l’unico aspetto sotto il nostro controllo (oltre naturalmente all’efficienza data dal contenimento dei costi), non essendo i mercati né controllabili né prevedibili, ricordando anche che:
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